Abusivo esercizio di una professione – Omeopatia


Fonte: Altalex Massimario del: 02 10 2007

 

Reati contro la Pubblica Amministrazione – Abusivo esercizio di una professione – Omeopatia – Esercizio da parte di soggetto privo della laurea in medicina e dell’abilitazione all’esercizio della professione medica – Reato – Sussistenza [art. 348 c.p.]

Commette il reato di esercizio abusivo della professione medica (art. 348 c.p.) colui che, sfornito della necessaria abilitazione professionale (attraverso il conseguimento della laurea, il superamento del prescritto esame di Stato e l’iscrizione nell’albo professionale), prescrive cure omeopatiche. Non vale, infatti, ad escludere l’omeopatia dalle professioni mediche la circostanza per la quale questa attività non sia oggetto di disciplina universitaria o di successiva professione per la quale è necessaria l’acquisizione di un titolo di Stato, esplicandosi comunque la detta metodologia in un campo – la cura delle malattie – corrispondente appunto a quello della medicina, per così dire, ufficiale.

(Fonte: Altalex Massimario 16/2007)

SUPREMA CORTE DI CASSAZIONE

SEZIONE VI PENALE

Sentenza 6 settembre 2007, n. 34200

Svolgimento del processo – Motivi della decisione

1. Con sentenza 28 settembre 2005 la Corte di appello di Bologna, in riforma della decisione 3 luglio 2002 del Tribunale di Modena che aveva condannato M.M. per il reato di cui all’art. 348 c.p., per avere esercitato, attraverso visite mediche, diagnosi e terapie, l’attività di medico senza aver conseguito alcuna abilitazione all’esercizio della professione medica, assolveva il M. dal detto reato perchè il fatto non sussiste.

Rilevava, più in particolare, la Corte che per il periodo corrente tra il gennaio …omissis… e l’ottobre …omissis… tutti i testimoni avevano riferito che il M. non aveva compiuto atti riconducibili all’esercizio della professione medica.

Relativamente al periodo dal 1993 al 16 gennaio 1998 (data della perquisizione presso lo studio):

a) coloro che avevano contattato il M. per assoggettarsi a cure omeopatiche erano consapevoli che l’imputato non aveva conseguito alcuna laurea in medicina;

b) la sottoposizione alle cure omeopatiche era avvenuta per libera scelta ed, in alcuni casi, con il contemporaneo ricorso alla medicina tradizionale;

c) non sussisteva la prova certa che l’imputato avesse effettuato diagnosi o eseguito visite; con tutta probabilità, le annotazioni di patologie erano relative a diagnosi riferite dai clienti;

d) le prescrizioni “terapeutiche” riguardavano prodotti omeopatici di origine naturale innocui ed inidonei ad interagire con altri farmaci;

e) l’imputato si era limitato a consigliare l’uso esclusivo dei prodotti omeopatici; in un solo caso aveva sconsigliato l’uso della tachipirina.

2. Ricorre per cassazione il Procuratore Generale presso la Corte di appello di Bologna denunciando violazione dell’art. 348 c.p..

Osserva, più in particolare:

a) l’irrilevanza della libera scelta dei pazienti, considerato il bene protetto dall’art. 348 c.p.;

b) l’esclusivo rilIevo del mancato conseguimento di titoli abilitativi, a prescindere dalla capacità del M. di effettuare le cure e dall’esito di esse;

c) l’irrilevanza della innocuità dei prodotti prescritti;

d) il rilievo della prescrizione (anche verbale) o della diretta somministrazione di sostanze specificamente indirizzate all’eliminazione di una malattia o a lenirne i sintomi, comunque qualificabile come atto di esclusiva competenza del medico, a prescindere dal fatto che la prescrizione venisse formalizzata in una ricetta;

e) la circostanza che solo il medico può effettuare prescrizioni anche di “medicina alternativa”. il ricorso è fondato.

2. L’impugnazione del Procuratore Generale si riferisce all’esercizio abusivo della professione medica da parte del M. per il periodo compreso tra il 1993 ed il 16 gennaio 1998, data della perquisizione a seguito della denuncia del G. perchè – almeno a quel che risulta dal ricorso – sembrerebbe pacifico, alla stregua di quanto esposto dall’ufficio ricorrente, che per il periodo successivo, l’attività dell’imputato non si estrinsecò in veri e propri atti di esercizio della professione medica.

Il difensore dell’imputato, in una memoria depositata in prossimità dell’udienza, ha richiesto la dichiarazione di inammissibilità del ricorso, perchè con esso si richiederebbe una pronuncia di estinzione del reato per prescrizione, nonostante questa non sia ancora maturata. Una tesi da disattendere subito giacchè risulta evidente dalla sentenza impugnata che la perquisizione nello studio del M. ha determinato la cessazione della permanenza, istaurandosi successivamente un’ulteriore attività peraltro ritenuta irrilevante ai fini della configurabilità del reato di cui all’art. 348 c.p..

Più precisamente, il sezionamento, così operato, dei due periodi di attività, l’uno antecedente, l’altro susseguente alla perquisizione, ha consentito una pronuncia del tutto liberatoria da parte della Corte di appello. La devoluzione, poi, di un solo frammento (quello iniziale) dell’attività abusiva, in forza dell’arco temporale oggetto dell’impugnazione del Pubblico ministero, potrebbe, al più, comportare – se il ricorso venisse accolto – il permanere della pronuncia di proscioglimento nel merito per la seconda fase (non ancora estinta) ovvero, se la Corte dovesse annullare la sentenza impugnata nei termini indicati dal Pubblico ministero, che l’annullamento dovrà disporsi senza rinvio per il periodo considerato per essere il reato estinto per prescrizione.

3. Ciò posto, sulla base della sentenza qui denunciata risulta evidente l’insussistenza delle condizioni per il proscioglimento in merito ex art. 129 c.p.p., comma 2, per il periodo di tempo contestato, proprio nei termini indicati nell’atto di impugnazione del Pubblico ministero, potendosi richiamare integralmente il contenuto di tali doglianze.

4. Come è noto, l’omeopatia è un metodo di cura consistente nella somministrazione in minime dosi di sostanze che, se somministrate ad alte dosi ad una persona sana provocherebbero gli stessi sintomi della malattia che si vuole combattere. Una tale metodologia, alla cui basa è la cd. “legge della similitudine”, secondo cui un determinato disturbo può essere curato col suo simile comporta la regola che la malattia si può curare (o prevenire) con ciò che può provocarla. Si tratta, dunque, di un metodo alternativo alla cd.”allopatia”, un sistema di cura che sfrutta l’azione dei principi contrari a quelli che hanno provocato la malattia.

Va avvertito però che non vale ad escludere l’omeopatia dalle professioni mediche la circostanza per la quale questa attività non sia oggetto di disciplina universitaria o di successiva professione per la quale è necessaria l’acquisizione di un titolo di Stato, esplicandosi comunque la detta metodologia in un campo – la cura delle malattie – corrispondente appunto a quello della medicina, per così dire, ufficiale.

Lo stesso oggetto dell’omeopatia, di fatto, non sembra così diverso da quello della medicina tradizionale, poichè, pur se attuato con metodi e tecniche da questa non riconosciuti, è finalizzate alla diagnosi e alla cura delle malattie dell’uomo.

Se a ciò si aggiunge l’intrinseca eccentricità dell’omeopatia rispetto al sapere medico tradizionale, pare evidente, a fortiori, che l’esercizio di tale attività deve essere subordinato al controllo, di natura pubblicistica, dell’esame di abilitazione e dell’iscrizione all’albo professionale e, prima ancora, al conseguimento del titolo accademico della laurea in medicina.

Come è stato perspicuamente rilevato, infatti, sarebbe paradossale imporre tali oneri a chi intende curare pazienti dopo essersi formato su testi della scienza medica ufficiale e non esigerli, invece, per chi voglia svolgere un’attività terapeutica in base a nozioni e metodi alternativi non riconosciuti dalla comunità scientifica. Una conclusione – quella ora ricordata – che risulta confermata anche considerando l’indubbia interferenza dell’attività dell’omeopata con un bene giuridico primario come la salute, che viene tutelata attraverso un imponente complesso di norme anche di rango costituzionale, attraverso la predisposizione di strutture pubbliche ad hoc, con la previsione di specifici controlli sui soggetti che esercitano privatamente l’attività medica.

Questa Corte ha avuto già modo di precisare che integra il reato di abusivo esercizio della professione medica la condotta di chi effettua diagnosi e rilascia prescrizioni e ricette sanitarie per prodotti omeopatici perchè tali attività coincidono con un’attività sanitaria che presuppone, per il legittimo espletamento, il possesso di un valido ed idoneo titolo; rimarcando che, se i rimedi omeopatici non sono riconosciuti dallo Stato, certamente non sono vietati ma sono rimessi alla libera scelta dell’interessato d’accordo con il suo medico curante dal quale le ricette devono essere redatte; sempre applicando l’art. 348 c.p., si è ritenuto, perciò, realizzato il reato in questione quando l’attività non venga svolta da un esercente la professione medica e si sostanti nella diagnosi e nella prescrizione dei rimedi suggeriti e delle modalità della loro assunzione (Sez. 6^, 25 febbraio 1999, n. 2652).

Tanto più che numerosi prodotti utilizzati in omeopatia sono oggi iscritti nella farmacopea ufficiale italiana, atteso che risultano comunemente utilizzati dalla stessa medicina allopatica.

Peraltro, dal 1992, prima a livello comunitario e poi nazionale, sono state emanate norme che prevedono la registrazione dei farmaci omeopatici presso il Ministero della Salute, mentre rigorose direttive stabiliscono i dettami ed i confini per la produzione e il commercio di tali prodotti nel territorio nazionale.

Il tutto in un quadro interpretativo che – come si vedrà più analiticamente fra poco – ha annoverato tra le attività di esclusiva competenza dei medici la chiropratica, i agopuntura, i massaggi terapeutici, l’ipnosi curativa, la fitoterapia, l’idrologia. Ha escluso, invece, dall’attività medica la misurazione della potenza visiva con prescrizione di lenti a contatto, l’attivazione di una ginnastica oculare rieducativa mediante apparecchiatura elettronica, la depilazione con gli aghi, la misurazione della pressione arteriosa non seguita da giudizio diagnostico, la gestione in un centro tricologico con finalità di miglioramento estetico, la consulenza dietetica in un centro di rieducazione alimentare, la vendita di erbe con indicazione della loro modalità di azione, la realizzazione di tatuaggi (cfr. anche Sez. 6^, 30 luglio 2001, n. 29961).

6. La sentenza impugnata ha impropriamente chiamato in causa l’ordinanza costituzionale n. 149 del 1988, quale statuizione legittimante l’esercizio dell’attività in esame da parte di soggetti non abilitati ad esercitare la professione medica, così equivocando macroscopicamente circa l’effettiva statuizione contenuta in tale pronuncia (cfr., amplius, Sez. 6^, 10 ottobre 2003, Bennati).

Nell’occasione la Corte era stata investita, in riferimento agli artt. 10 e 25 Cost., della questione di legittimità dell’art. 348 c.p., sollevata dal giudice a quo nel corso di un processo a carico di tre cittadini statunitensi che avevano esercitato in Italia la professione di “chiropratici” senza essere in possesso della prescritta abilitazione dello Stato, sotto il profilo che la norma denunciata manca dei necessari riferimenti integrativi, in quanto, da un lato, gli atti abilitativi rilasciati negli Stati Uniti d’America non sono riconosciuti nella nostra Repubblica e, dall’altro lato, non esiste nel nostro Stato nè un corso di laurea in chiropratica nè, conseguentemente, l’omologa abilitazione professionale, per cui non potrebbe applicarsi la norma penale senza violare l’art. 25 Cost. (l’art. 10 Cost. risultava indicato nel solo dispositivo dell’ordinanza di rimessione).

La Corte, dopo aver osservato che la fattispecie denunciata punisce soltanto chiunque eserciti abusivamente una professione per la quale è richiesta una speciale abilitazione dello Stato e che, dunque, l’abuso punito dall’art. 348 c.p. consiste proprio nell’esercizio di una professione, per la quale lo Stato richieda una speciale abilitazione, da parte di chi non l’abbia conseguita, ritenne la questione manifestamente inammissibile perchè irrilevante; lo stesso giudice rimettente aveva, infatti, riconosciuto che lo Stato italiano non richiede alcuna abilitazione per la professione di “chiropratico” che la nostra legge ignora, mentre l’art. 2229 c.c. affida, appunto, alla legge la determinazione delle professioni intellettuali per le quali e necessaria l’iscrizione in appositi albi o elenchi. Stante, dunque, il “disinteresse” della legge ordinaria, la Corte ne ha inferito che “non ha alcuna rilevanza che la chiropratica possa essere inquadrata nello schema delle professioni, giacchè, fino a quando lo Stato non riterrà di disciplinarla e di richiedere per il suo esercizio una speciale abilitazione, si tratta evidentemente di un lavoro professionale tutelato, ex art. 35 Cost., comma1, in tutte le sue forme ed applicazioni, e di una iniziativa privata libera ex art. 41 Cost.”, con la conseguenza che “l’art. 348 c.p. risulta assolutamente inapplicabile perchè il fatto non è preveduto dalla legge come reato”.

Da ciò pare chiaramente emergere – contrariamente da quanto argomentato dalla sentenza impugnata – che il ricordato “disinteresse” dell’ordinamento italiano per la professione di “chiropratico” – al pari di quella di “omeopata” – vale se e semprechè l’attività concretamente esercitata non implichi il compimento di “operazioni” che solo chi è abilitato all’esercizio della professione medica può lecitamente eseguire.

8. Questa Corte è, del resto, costante nella linea interpretativa in base alla quale l’art. 348 c.p. è norma penale in bianco – una proposizione, peraltro, in parte da rimeditare alla stregua della sentenza costituzionale n. 199 del 1993, senza che, peraltro ciò possa comportare decisivi riverberi sui tracciati ermeneutici inesame – che presuppone l’esistenza di norme giuridiche diverse, qualificanti una determinata attività professionale, le quali prescrivono una speciale abilitazione dello Stato ed impongano l’iscrizione in uno specifico albo, in tal modo configurando le cosiddette “professioni protette”; così da trame la conseguenza che l’eventuale lacuna normativa non può essere colmata dal giudice con la prescrizione di regole generali o astratte. La norma in esame tutela, quindi, non certo interessi di tipo “corporativo”, ma l’interesse della collettività al regolare svolgimento delle professioni per le quali sono richieste una speciale abilitazione e la iscrizione nell’albo; con la conseguenza che la condotta costitutiva dell’abusivo esercizio, deve consistere nel compimento di uno o più atti riservati in modo esclusivo alla attività professionale (Sez. 6^, 29 novembre 1983, Rosellini). Tanto da far emergere come non sia il nomen della professione esercitata a designare il tipo di attività come corrispondente a quella esclusiva del medico ma le concrete operazioni eseguite, a meno che l’attività (ci si riferisce a modelli di confine con l’esercizio della professione medica) sia di per sè qualificabile come esercizio di attività esclusiva del medico e pure se, quando la professione è regolamentata dalla legge, il superamento dei limiti da essa tracciati comporta esercizio abusivo della professione medica. In un quadro in cui fa da decisivo punto di riferimento il principio espresso dall’art. 32 Cost. in base al quale “La Repubblica tutela la salute come fondamentale diritto dell’individuo e interesse della collettività”, attraverso una verifica della norma ordinaria (anche incriminitrace) in chiave costituzionale, secondo una linea ermeneutica, del reato ormai consolidata nella giurisprudenza del giudice della legittimità delle leggi (cfr., ex plurimis, la sentenza costituzionale n. 184 del 1986. 9. Più specificamente, in relazione alla prima tipologia in cui si manifesta la fattispecie di cui all’art. 348 c.p., e sempre con riferimento all’attività esclusiva del medico, questa Corte ha affermato perciò che l’attività professionale di optometrista che non poteva essere prevista in occasione della regolamentazione della professione di ottico non implica necessariamente esercizio della professione medica; demandando al giudice del merito il compito di verificare se le pratiche professionali corrispondano ad una mera attività di rilevazione e misurazione strumentale, e ad una semplice attività di ginnastica oculare – nel qual caso dovrebbero considerarsi solo ausiliari e funzionali all’espletamento della professione medica e non integranti il reato – oppure se esse necessariamente comportano nella loro essenziale esecuzione, scelte e valutazioni di carattere diagnostico, tipiche dell’atto medico (Sez. 6^, 3 aprile 1995, Schirone). Sulla stessa linea si è affermato, in relazione alla professione medica che si estrinseca nella capacità di individuare e diagnosticare le malattie, nel prescriverne la cura, nel somministrare i rimedi anche se diversi da quelli ordinariamente praticati, che commette il reato di esercizio abusivo della professione medica chiunque esprima giudizi diagnostici e consigli, ed appresti le cure al malato; precisandosi che da tale condotta non è esclusa la psicoterapia, giacchè la professione in parola è caratterizzata dal fine di guarire e non già dai mezzi scientifici adoperati: onde, qualunque intervento curativo, anche se si concreti nell’impiego di mezzi non tradizionali o non convenzionali da parte di chi non sia abilitato all’esercizio, integra il reato previsto dall’art. 348 c.p.: nella fattispecie, i giudici di merito avevano ritenuto la sussistenza del reato di esercizio abusivo della professione medica a carico degli operatori di un centro non abilitato ove i pazienti venivano sottoposti, tra l’altro, a sedute psicoanalitiche (Sez. 2^, 9 febbraio 1995, Avanzini).

Più di recente, ribadendo una giurisprudenza ultraventennale (Sez. 6^, 6 aprile 1982, De Carolis), si è ritenuto che l’agopuntura, in quanto terapia invasiva che, oltre all’effetto tipico ipnotico ed anestetico che essa sul paziente, e esposta a tutti i rischi collegati ad un intervento di tale natura, quali quelli di lesioni gravi causate da invasioni in parti non appropriate del corpo umano, senza contare il rischio di infezioni per l’uso di “utensili” non sterilizzati nel rispetto degli standards attualmente previsti e periodicamente verificati dai servizi sanitari e costituisce esercizio della professione medica (Sez. 6^, 27 marzo 2003, Carrabba). Ed è interessante notare come mentre, all’epoca in cui fu pronunciata la prima decisione, l’agopuntura non costituiva materia oggetto di insegnamento nelle università italiane, allorchè è stata pronunciata la seconda, la facoltà di medicina e chirurgia della facoltà di Roma “La Sapienza” ha inserito “il bando di attivazione del master di 2^ livello in agopuntura per l’anno 2003, il cui titolo di ammissione è il diploma di laurea in medicina e chirurgia ovvero in odontoiatria. Così da far concludere circa l’esercizio della cd. “medicina alternativa”, in rapporto alla fattispecie di reato anche adesso contestata, che l’agopuntura si esplica mediante atti propri della professione medica, oltre che per la scelta terapeutica della malattia da curare, anche per i suoi intrinseci metodi applicativi che possono definirsi “clinici” (così Sez. 6^, 27 marzo 2003 Carrabba).

Tale decisione ha avuto, ancora, cura di ricordare come la giurisprudenza di questa Corte si sia orientata nel senso che integra il reato di esercizio della professione medica “la condotta di chi effettua diagnosi e rilascia prescrizioni e ricette sanitarie per prodotti omeopatici perchè tali attività rientrano nell’esercizio di un’attività sanitaria che presuppone, per il legittimo espletamento, il possesso di un valido ed idoneo titolo; rimarcando che se i rimedi omeopatici non sono riconosciuti dallo Stato, certamente non sono vietati ma sono rimessi alla libera scelta dell’interessato d’accordo con il suo medico curante dal quale le ricette devono essere redatte; sempre applicando l’art. 348 c.p., si ritenne, perciò realizzato il reato in questione quando l’attività non venga svolta da un esercente la professione medica e si sostanzi in un’attività diagnostica e in quella prescrittiva dei rimedi suggeriti e delle modalità della loro assunzione” (Sez. 6^, 25 febbraio 1999, Cattaneo).

La giurisprudenza di legittimità ha, dunque, recepito la costruzione ermeneutica inaugurata dalla sentenza costituzionale n. 1999 del 1993, che ha ravvisato nella previsione dell’art. 348 c.p. una fattispecie caratterizzata da autonomia precettiva che la rende autosufficiente rispetto alla disciplina dei contenuti e dei limiti imposti dai titoli abilitativi. Così superando H linea interpretativa che ravvisa nella norma adesso ricordata una norma “penale in bianco”. Designando il provvedimento abilitativo non come elemento strutturale della fattispecie incriminatrice, ma come presupposto che “in negativo condiziona la capacità giuridica del soggetto in ordine all’oggetto di quella specifica professione, qualificandone la condotta come abusiva e, per ciò stesso, illecita”. Con decisivi riverberi quanto alle professioni cd. di “confine” con l’attività medica, perchè ciò che designa l’opera dell’interprete è la necessità di pervenire ad una corretta individuazione della condotta, in modo di verificare se essa abbia il contenuto di atti tipici della professione medica che, a norma del D.P.R. 5 aprile 1950, n. 221, può essere esercitata da coloro che, oltre ad avere conseguito la laurea e superato i prescritti esami di abilitazione, risultino iscritti negli appositi albi (così, ancora Sez. 6^, 27 marzo 2003, Carrabba; nonchè, Sez. 6^, 9 febbraio 1995, Avanzino Sez. 6^, 11 maggio 1990, Mancariello, nel senso che, in relazione alla professione medica che si estrinseca nell’individuare e diagnosticate malattie, nel prescriverne la cura, nel somministrare i rimedi anche se diversi da quelli ordinariamente praticati, commette il reato di esercizio abusivo di tale professione chiunque esprima giudizi diagnostici e consigli ed appresti cure al malato).

10. Sotto il secondo profilo, si è ritenuto che commette il reato di abusivo esercizio della professione di dentista l’odontotecnico che svolga attività riservata al medico nei confronti di pazienti che si rivolgono a lui, in quanto, in virtù del R.D. 31 maggio 1928, n. 1334, art. 11, è escluso ogni rapporto diretto fra paziente e odontotecnico, quest’ultimo, essendo autorizzato “unicamente a costruire apparecchi di protesi dentaria su modelli tratti dalle impronte…. fornite da medici-chirurghi…. con le indicazioni del tipo di protesi da eseguire (art. 11 dell’ora ricordato R.D.: nella specie la Corteha osservato che correttamente la Corte di merito aveva ritenuto che l’imputato dovesse rispondere del reato ascrittogli in quanto aveva:

1) esaminato il ponte di una paziente prescrivendole delle radiografie e poi esprimendo il suo giudizio al riguardo;

2) visitato un paziente che lamentava dolore ad un dente, facendolo distendere sul lettino, esaminandogli la bocca ed affermando che erano necessari altri lavori;

3) visitato un paziente, prescritto al medesimo delle radiografie, impegnandosi a stendere un preventivo;

4) esaminato la bocca di un paziente prescrivendogli radiografie nonchè, all’esito, l’applicazione di un apparecchio (Sez. 6^, 9 novembre 1992, Cagalli; Sez. 1^, 12 febbraio 1997, De Luca).

Si è ritenuto, ancora, che commette il reato di esercizio abusivo della professione medica (o paramedica) il biologo che sia pure preposto a un laboratorio di analisi, effettui un prelievo di sangue venoso a fine di analisi; precisandosi che tale intervento, pur se appartenente alla ordinaria amministrazione nella pratica medica, ove non eseguito da soggetti professionalmente preparati e secondo precise tecniche e metodologie, è idoneo a ledere l’integrità fisica o addirittura a mettere a repentaglio la salute della persona su cui esso si compie, ed è di esclusiva pertinenza della professione medica o di quelle professioni paramediche, come quelle esercitate dagli infermieri professionali o dalle ostetriche, per le quali la relativa abilitazione deriva da specifiche previsioni di legge; aggiungendosi che se è vero che la L. 24 maggio 1967, n. 396, art. 3, comma 2, recante “Ordinamento della professione di biologo”, consente ai biologi iscritti nell’albo attività ulteriori rispetto a quelle tipicamente elencate nel comma 1 di detto articolo, tale disposizione prevede espressamente anche che simili ulteriori attività siano attribuite alla competenza dei biologi da leggi o regolamenti, e nessuna fonte normativa, primaria o regolamentare, abilita i biologi ad effettuare prelievi di sangue finalizzati all’analisi (Sez. 6^, 6 dicembre 1996, Manzi).

P.Q.M.

Annulla senza rinvio la sentenza impugnata limitatamente alla condotta protrattasi fino al 16 gennaio 1998 perchè relativamente a tale periodo il reato è estinto per prescrizione.

Così deciso in Roma, il 20 giugno 2007.

Depositato in Cancelleria il 6 settembre 2007.